Ci sono momenti in cui la vita decide di metterti alla prova. Non quando sei in corsia, con il camice addosso e il tuo nome scritto sul cartellino, ma quando sei fuori, in un contesto qualsiasi, e tutto dipende solo da un istante.
Ero a Padova per un convegno. Una serata come tante, in un ristorante tranquillo, scelto a caso. Ero in compagnia di mio fratello Filippo e qualche amico.
Poi, all’improvviso, le urla: un uomo si sente male. D’istinto, corro verso di lui e mi accorgo subito della gravità della situazione: è in arresto cardiaco. Nessun respiro, niente polso.
Non c’è tempo per pensare. La mente accelera, le mani si muovono da sole. «Aiutatemi a sdraiarlo!» grido. Palmo della mano sul petto, l’altra sopra. Comincio a spingere. Forte.
«Chiamate il 118! Dite che abbiamo un paziente in arresto, subito!» Qualcuno tiene il tempo.
Novanta secondi. Tanto è bastato. Il cuore ricomincia a battere. L’uomo respira. È vivo.
L’ambulanza arriverà dopo 25 minuti. Sarebbero stati fatali, se avessimo atteso.
Ripensando a quei momenti, confesso una cosa: quando mi proposero il corso di ALS (Advanced Life Support) ne fui quasi infastidito. Pensai che mi avrebbe tolto tempo prezioso alla ricerca, ai pazienti, al mio lavoro. E invece, il destino ha voluto diversamente.
Aver vissuto questa esperienza mi ha spinto ad una ulteriore riflessione: vorrei che queste competenze non restassero solo nei reparti. Vorrei che si insegnassero ovunque: a scuola, nei luoghi pubblici, nei corsi aziendali. Perché il cuore, anche un cuore sano, può fermarsi all’improvviso.
Quel giorno a Padova non ero il Dottor Ascierto. Ero Paolo, una persona che si è trovata nel posto giusto al momento giusto. E quei novanta secondi hanno fatto la differenza. Perché ogni secondo conta.